una sera di mezza estate


Al crepuscolo, in campagna, prendeva corpo l’esistenza notturna tipica delle nostre colline. Tutti i rumori venivano magnificamente amplificati: il latrare dei cani lontani, da noi e fra loro, ma uniti nell’orchestra naturale degli sbalzi e respinte sui monti a disegnare un acustico ideale cerchio, il silenzioso chiacchierio delle galline chiuse al buio, il sibilo di piccoli volatili, il fiatone dei compagni, l’urlo di una mamma a richiamare il figlio per la cena, lo stridere dei denti di due piccoli volpini fasciati nell’abbraccio del gioco, infine il vento, incuneato nella valle, sospinto e ingrassato da se stesso, giungeva impetuoso a scompigliare i nostri capelli e a gelare i nostri corpi umidi dal tanto correre. Piccole lucciole danzavano a intermittenza fra gli oleandri e qualcuna, inesorabilmente, finiva fra due fanciulle mani per celebrare la festa della breve cattura. Dopo il riposo, per salutare questo incanto, ricominciavamo il perpetuo movimento di gaiezza, senza che provassimo mai stanchezza. Ci inseguivamo a perdifiato nella penombra in cerca dell’ultimo CENTO; ci si litigava a volte per l’irregolarità del tocco vincente, ci si spingeva, volava anche qualche ceffone, ma la legge dell’aia, piuttosto che della strada, infine invitava i litigiosi a regalare smaglianti sorrisi di pace e amore. L’unico lampione dello spiazzo prendeva intanto ad accendersi lentamente; il cerchio di luce da esso propagato recintava i nostri ultimi schiamazzi. La gioia e la vitalità diventavano cremosamente palpabili. Quel cerchio, per me, rappresenta ancora il Paradiso.
Il pensiero della cena, ormai vicina, ci suggeriva di uccidere ogni tempo morto, ci istruiva a prendere pieno possesso del nostro tempo, in modo da poterlo divorare tutto, tutto, senza avanzi sbavati. L’enfasi del gioco, così, si contraeva infinitamente, in spazi sempre più piccoli e bui. Ma il richiamo fatidico arrivava sempre puntuale, e puntualmente veniva accolto con gesti e smorfie poco eleganti. Ce ne andavamo ognuno nelle nostre case, non senza prima esserci dati appuntamento per l’indomani.
Si rientrava a casa sbattendo il pesante portone e ci si sedeva a tavola spesso con le mani annerite. Colorate uova iniziavano ad essere annegate nel giallo liquido profumato e caldo, e un saggio cucchiaio cucinava il rosso prelevando l’olio dalla cibbia formatasi dall’esperta inclinazione del padellino. Quando il rosso veniva adombrato da una pellicola bianca il fuoco si spengeva, e l’uovo, posato delicatamente sul piatto bianco e spizzicato, mi veniva servito a tavola. La pitta calda compiva poi il rito del nutrimento voglioso, fatto di inzuppate, strisciate e infine di rotondi cerchi pulitori. Il piatto, ritornato bianco, veniva poi rallegrato dalla rossa insalata, mentre i miei vecchietti, uno ad uno, iniziavano a sonnecchiare poggiando la testa sulla tavola. Quel vedere era un bel vedere. Io, piccolo forte eroe, intanto mi gustavo GIOCHI SENZA FRONTIERE poggiando i piedi su una sedia impagliata. Una russata più forte delle altre dava la sveglia. Ci andavamo a coricare portandoci sottobraccio ognuno il proprio mattone caldo confezionato con fogli di giornali e spago:  avrebbe mitigato quella forte sensazione di freddo glaciale generata dal coraggioso primo ingresso sull’alto letto. I miei occhi fissavano le travi di legno e i chiodi in esse conficcati fino all’ultima contrazione delle palpebre, chiuse da un invincibile sonno di pace. Il nero finiva alle prime luci dell’alba, quando le voci umane, i primi richiami animali, ma soprattutto l’energia del mio cuore gonfio di vita, muovevano la mia anima ad un nuovo meraviglioso risveglio.
Vivevo, allora, sempre impastato nel presente; del passato e del futuro non ne avevo mai alcuna percezione. Forse per questo ero davvero completamente felice. 

Ermanno Cribari